COMUNQUE LE ATTRAVERSA IL SOLE

Le mie donne
sono i gigli delle serre d’inverno
e sbocciano se fuori c’è la neve

nascono a volte come luci
d’un attimo e dileguano
eppure il loro esistere fugace
mi rischiara la via

ci sono quelle dagli sguardi fieri
non li abbassano mai
quegli occhi d’ansia
e quelle che nascondono il dolore
perché non sia di troppo

le mie donne hanno tracce
di pensieri tradotti in gesti scarni
le dita tra i capelli
i sorrisi stremati delle attese
i singulti improvvisi
le ginocchia serrate per difesa
le braccia spalancate
benchè il raccolto non sia mai concluso

 

 


Anni concentrici

Braccia d’avorio e infine una misura
di vita pescanoce
sbocconcellata al limite del nòcciolo
o una mandorla dolce
bianca fuori dal mallo un’avventura
di ramo quasi spoglio
puoi dire quanti anelli abbia il suo tronco
ma prima devi sezionarla in toto
esporla sul bancone degli affari
– se paghi due
te la daranno intera –
scorze comprese.

Sarebbe convenienza
cominciarla dall’ala dei capelli
terminarla nei piedi
tu che non conti i cerchi nel midollo
le riconosci il suono dei vent’anni
sotto le vesti dei suoi strani giorni.

E fuggi
perchè non osi contenerla
temi
che ti si avviti addosso l’importanza
della sua vita
il termine che avanza – se lontano
ne scanserai il dolore –

Ma lei vive nel cavo di parole
e mai potrai scordare la sua voce.


Riflesso marginale

avevo appreso a vivere di lato
tendevo a spostarmi oltre il confine
tralasciando bagagli
e non guadavo specchi
mi tenevo a distanza dagli appigli
nuotavo
costeggiando silenzi

non avara di me
solo del tempo.

Giunsi all’incaglio stanca
fui costretta a guardare l’altro volto
la me stessa sbiancata nei pensieri

e quella voce diventata abbraccio
fu la gomena tesa
ch’io non vidi

Decodificando Godot

Siamo arrivati fin qui
noi che giocavamo con la sabbia
i trenini di latta
le bambole di pezza
noi che nessuno c’insegnò a barare

seduti composti taciturni
– son discorsi da grandi –
le malizie sostavano in cortile
in trecce scarmigliate
ciuffi rimessi a posto col sapone
inamidato il cuore oltre ai colletti
e sandali d’inverno

chi ci chiede il sapore di quegli anni
innesca micce

ma qui, sediamo tutti intabarrati
pesanti d’anni e di malinconia
stampigliata nel codice l’origine
la data di scadenza indecifrabile
pescatori di nebbia
nell’attesa di vivere davvero.


D’in_solito andare

Mi sono ricordata a sera tarda
nel togliermi le scarpe
la misura del raggio
dai miei piedi
al centro della Terra

collegamento all’esserci
che mai potrà la mente
coi suoi voli pindarici
conoscere tal quale
le vie del brulicare che
mi scorrono sotto.

M’improvviso entomologa
nel definire il mio cammino immoto
su superficie instabile

nella maniera esatta si direbbe
un tapis roulant

e noi si avanza
– visibilmente scollegati dagli
ipogei del mondo –
la testa immersa in nugoli di cielo


il cielo in una scatola

Non ci sarà altro luogo
soltanto quell’azzurro in cui lo scorge
col suo fare giocoso
un qualche movimento senza mai
spostarsi dal centro.
Darsi a punti cruciali – vuoi che ti mostri un fiore?
– Meglio una perla. Una porzione d’ombra
Un’asola di troppo?

A contornare un battito
la voce è ritmo
il respiro è tocco
nella penombra indotta
annotazione dolce: il sapore di miele
di lei di lui che non si sono
assaporati mai
eppure
quando lo sguardo accoglie quella resa
il perdersi preciso
nel minuscolo vano è vita offerta.

Lei resterà
come avvolta in un risveglio lento
da un sogno che vorrebbe non finisse
appoggerà le spalle al suo saluto
mentre
d’intorno piomberà la luce

 

Infiniti ritorni

Torneremo alle antiche dimore
noi angeli senza domani
e avremo due scodelle
una di terra, una di sole
una per dire adesso, una per dire poi
e porteremo appesi alla cintura
i segreti degli attimi stravolti

quelli che ci raccolsero perduti
nell’esilio dei fiati

i nostri mezzi giri
le tacche incise nelle schiene
– seppellimmo le braccia
incenerimmo gambe e piedi
facendoci bastare il resto –
avemmo tagli mai cicatrizzati
cocci di vetro in vertebre sconfitte

e dove dunque
dove ci attaccherai le ali?

cosmogonica

saranno miei tutti gli amori
e i loro mille volti
conoscerò le estreme meraviglie
di ogni singolo fiato
qualunque voce chiamerà il mio nome
altrettanto che il vento tra gli abeti

e ricadrò sui margini del mondo
come drappo di sole
come un’allegoria dell’universo

succederò a me stessa
in cromosomi e per figure instabili
io di nulla e di colmo
a somiglianza
d’ogni altra vacuità
d’ogni altro esistere

d’un tuonare improvviso
o mormorare d’una gola roca
d’uno squillo di risa
un dio selvaggio come artiglio all’io
sennò chi sono
se non sono in Tutto?


RELATIVAmente

Quando mi spingi al margine
dei tuoi minuti contati
quando mi appoggi alla parete
come un avviso vecchio di bacheca
e non mi vedi
muovi d’un passo accennalo d’obliquo
raccoglimi parola e movimento
di quell’astratto rito di contorno
che ti rapì nell’attimo

e portami sul bordo
di questo tempo matto
ché tu lo sai
non è solo quel segno di carezza
immaginata nel transito degli occhi
o dire nel non dire
tre sillabe per te certo di troppo

per me ragione d’essermi attardata.

è NON è

Avvertono le transenne in grigio
la materia dei non-colori
il rovescio d’ogni

con i sensi d’amianto
il corpo che non ha il suo peso
nemmeno a carati
solo tremito

prezioso a chi?

Oltre le sbarre a concludere
in blu cobalto aggancio
il pieno e l’ombra
e lì
dove s’affaccia Dio
lasciare un punto di
domanda

O…

Vi toccherò
con le mie braccia d’infinito
con la mia parola fatta spada
vi toccherò
perchè sia solo brivido il pensare
o l’amare
o
qualunque altra cosa

ed io per voi
non posso più racchiudermi
in respiri
o piccole illazioni
o
qualunque altra cosa

ho dalla mia la voce dell’ignoto
che sento e vi ridico
questo il mio tocco
o una preghiera giunta da chissà
o
forse un lamento attrito
a pugnalare spazi
e
cuori disarmati

Quando lei

Di quei giorni
rimarranno paure e meraviglie
un rimpianto leggero
come una svolta a passo lento

non un disegno sopra una lavagna
il suo vissuto affonda nelle ossa

ma le giungono ancora
divini geroglifici
a cancellare un che
di troppo umano

Orologio a par(e)te

un crepuscolo e mezzo
oscillazioni uguali
e spostando le tende
c’era chi percorreva con lo sguardo
gambe alle otto e venti
magari nella forbice di assenso
braccia alle nove e un quarto

nella sala d’aspetto
sventoleremo fazzoletti e ciocche
a mezzanotte in punto
e sotto la tettoia
riposerà il cucù


CONsensualMENTE

Accompagnami ancora per un tratto
– è la voce di sempre –
a linee curve adagia la parola
e nel vapore azzurro d’ uno sfondo
un segno tra i capelli
si riproduce in varco

(ne potrebbe conoscere i frastagli
chiusi nel gesto) intanto il nome
ripetuto in frequenze singolari
plana come nevischio
su emisferi

è fermaglio al colmare
quel suono pronunciato in tondo
espirato di getto..


Attimo

Conoscere il mentre

all’improvviso accorgersi che
siamo bitte
e tratteniamo scampoli di noi

vivere nel momento
perdere memoria del trascorso
fosse un fulmine o un fiore

una gomena è ieri
o l’altroieri infisso
un bioparco di accenti
circonflessi
sopracciglia dipinte spray
qualsivoglia dolore
è morto già

ora è
un bacio o un fastidioso
moscerino un
pane e lamento
nonrespiro
morso
risata
buco
ahi
qui

ora

Sherifa

Il terrazzo di fronte a le Bardo
un brontolio protratto su maniglie
d’ebano a fiori blu
la salle d’eau

mi ricordo di te
dei sonagli di armille a Matmata
il giropozzo e i buchi nella pietra
i cammelli grondavano di sale
e nelle ondulazioni del calore
percorrevo le nenie dei beduini
le jellabah a coprire corpi d’ebano
e bevevo la luce dal turchino

rendimi una parola, che sia nel souk
o su per i pendii di Jebel Rabia
da Chenini a Tozeur
sotto le palme a Dar Cherait.
Ero anch’io una ragazza
quando con allegria mi depilavi tutta
con zucchero e limone
e poi mi dipingevi mani e piedi
ridevi
mi chiamavi “la piccola signora”
e portavi mio figlio a l’Hammam.

Mi piacerebbe rivederti un giorno
con la mia stessa età portata addosso
sono sicura che mi abbracceresti
e forse mi diresti come allora:
Beslema, petite dame des verts yeux.

Furto a pié del monte

Prima volevo chiudere la roccia
-sesamo non ti aprire-
e tu con le movenze d’un derviscio
schiodavi gambe e braccia
un chicco d’uva passa tra le dita
e solfeggi d’inverno tra le mani

non insabbiarti adesso
che da un uovo di struzzo
nasce un falco

se ti afferri alle frange del tappeto
sorvolerai la vetta del Kailash
ti stupirai
per un ladro di versi a viso duro
determinato a derubarti ancora.

E lasci fare

alle falde del monte
in acqua chiara
infiniti ruscelli a dissetarti.

Ecce deus

Questa mattina proprio non mi ascolto
ho altro da pensare
c’è polvere dovunque su scaffali
i libri non consentono la pioggia
ed è il deserto sulle costole spente
non mi dicono niente, sarà il caldo
o forse l’improvviso avermi accanto
la me stessa di tante primavere
ma poi perché non dire degli inverni?

Sono tanti comunque
e al volgere di pagine interrotte
molteplici irrisolte
a dare un senso per alcune vite
gioie fugaci
i nipoti in piscina, il cane biondo
che se pure ha pisciato sul tappeto
è piccolo e non sa

i miei figli da adulti
hanno perso lo sguardo da bambini
e sento il peso
delle loro fatiche anche non dettte

Ci sarà mai un domani
alle voci delle anime, ai sorrisi
liberamente disegnati in cielo
senza supporti di stremata carne?..

ora mi servirebbe un dio qualunque
non quello degli altari un dio stregone
un dio che fa magie senza vangeli e tonache
un silenzioso Fiato alle creature.

Peristilio

A linee organdizzate veli tenui
sfumature in indaco
riposo e mi accompagno
alle colonne orizzontali
mi direte se il senso è quello giusto
se non me lo direte sarà uguale
io sono fetta di quel passato e stralcio
sezionato
del mio-vostro presente

rivolgerete altrove l’attenzione
è certo come è certo il divenire
occhi di biglie a rotolare in cielo
fino a mostrare il bianco

e allora me nell’entasi solcata
esperimento nell’altrove assunto
mano nella mia mano a dirmi sola
nell’aria che rifiuta il mio respiro

resto.

Fantasmi di tempi a venire

ha mani che sembrano corolle
l’uomo del sogno in blu
su per i tetti opali in biancoluna
e tumide le labbra per i baci
schiuse d’inverno a coccole e ciliege
mia come mia di sempre
e di nessuno

lei nel suo nido
dirama inviti all’estasi
sorride se un mirino le si accende
sulla pelle e negli occhi
e sui tremori delle tende rosa
sul nocciolo del dramma
liscia le pieghe al tempo

vanno d’intreccio amanti a passeggiare
tra monumenti e strade del passato
lui le inventa la vita nei ricordi
lei nel presente meno di una foglia
a bere frasi di vaniglia e miele
vedi, le dice, vedi quella donna
vestita di poesia?
Sei tu mio amore, apparsa dal futuro
mia regina di rose inghirlandata
mio sospiro presente
e t’immortalo.

Stollo

Filo
di paglia
a volteggiare
in lingua gialla
a taglio stomi di
flauto traverso
e quando atterro
al sommo della balla
una festuca

il vuoto mi attraversa
su commissure d’argini sospesa
spessori infinitesimi
riversa in me di me che perdo il senso
in questa moltitudine si sfoglia
quella che fui di spalle

a dritto viro
come perpetuo sfarfallare d’erba

Medievale

C’è una porta nel muro dei mille ritegni
senza scritta, mimetizzata quasi
conduce dove l’io diventa noi
una mandorla oppure un grano azzurro
a volte una manciata di pistilli
e la pioggia che lucida la soglia
e controvento
apre singhiozzi agli occhi

a volte brucia
si chiude alle risate sulle rampe
come colpi d’ariete
lungo il fossato i cardini caduti
delle battaglie perse.
I vincitori restano impettiti
nelle toghe d’amianto
non li stana l’acerbo temporale.

Non li denuda il fulmine
ed il fiore
attorcigliato a fune di stagione
è dis-piacere dis-pensato ad arte

bussano senza tema di ferire
e lei riavvolge trecce dalla torre.

Kirie eleison

Battiti contati
da qui alle rampe della buca
dove il silenzio suggerisce al mimo
interruzioni e apnee
negli assaggi del non.

Oggi gli astanti
rime piegate agli ang(e)oli
in gita di nascosto al dormitorio
delle bambine prigioniere
baruffe di nocciole e mandarini
la notte di vigilia

il santo nasce
praticamente morto, e come lui
fenomeni di spire e cromosomi
ritagliati nel ventre delle cose
necessità perfetta alla sostanza
bipedi rassegnati sotto il peso.

Nella cantoria
l’organo spinto a mantice
le mani erano piccole
ci si stancava ma
non si doveva smettere
quando all’altare il prete
sacrificava Dio


l’indifferenza

ha risvolti di sabbia
sigilla porte e storie
a giorni alterni
porta pazienza, il cerchio
gira nel breve spazio
a schiodare garofani da bocche
mute per ingoiare
reggilingue
tip tap
batte di scarpe lucide appaiate
la vita senza lacci

portami un mezzo fiore
un sacchetto di carta stropicciato
perfino un fildiferro
– mai ti farei del male-
non costruirmi intorno una muraglia.


Delibera

E non si torna indietro
da percorsi condotti sotto riva
tra legacci e comete
o tra silenzi bordati di ciniglia, ma
ora chiudo la mia vena battente
che la pietà non abbia grimaldello

per non aver sentito e
peggio ancora amato
e lo sapevo, erano rocce a forma
di risata, non altro, e mi stupivo
a sperare in miracoli minimi
miracoli
che non è mai bene attendere

perciò perfino s_prego a mani s_giunte
che non mi ascolti dio
s’offra a chi merita
altra mercede e vita. Io vado
sapendo che nessuno tratterrà
i miei passi.

Metà del silenzio

Le donne della malinconia
dagli occhi di smeraldo
arretrate su rive senza rena
nella penombra dove
la brace divampò d’un tratto
e non c’erano timbri
né ricorrenze da memorizzare

le donne dai dolori contratti
e dalle voci spalancate al seno
quasi a mostrare l’anima
vanno col viso vuoto
le mani piene nei sorrisi incerti
– vieni, le ho cariche di fiori
non mi spazzare via con un saluto.

E braccia
da stringersi soltanto al proprio petto.

MYRMELEONTIDAE

Voci di cartavetro assottigliano spigoli di latta ipotesi perfette che l’immenso genio
offre sui marciapiedi di desideri sparsi e cuscini di pietra alle sottane smosse
allunga arpia la mano come gli aztechi a depredarti il cuore e danza
sulle tue ossa stanche il suo bolero d’ombra piramide di sangue
ahimé!quanto sconquasso le parole e quanto scivolosa
nell’imbuto la tana oscura. Può gridare piacere
ai quattro venti: è l’amante del nulla
regina della nebbia lungolago
piffero incanta-cobra che
silente non lascerà
sfuggire dal
canestro.
Oh!

lei, ma forse io

Lei che rincorre lacrime da tempo
abita stanze inverse
pallottoliere in mano conta giorni

lei si concede un minimo d’avere
un caffè forte, un calice di vino
un abbraccio di sbieco

il fumo non comprende la candela
solo la cera cola sulle mani
arde quel poco a dire
ancora brucia.

È lì affacciata
nei ritagli del sogno alle finestre
notti di lune svolte a sinusoidi
in andamento piano.

Non la vedrei di maggio
perdere i suo colori in campo grigio
l’arrivare di giugno di soppiatto
una carezza estorta e lei che ride
soltanto con la bocca
il dentro piange.

Piccoli naufragi

Minime resurrezioni quotidiane
gambe che
non rammentano il tempo
braccia serrate al rimbombare
d’un torace assordato

ti chiedevano gesti conclusivi
semi nati di contro
e di traverso
ch’erano fari apparsi sulla terra
nera dei cantastorie

E ti svendevi il cuore
nave costiera dalle falle aperte
aspettando il naufragio
le zattere si sono tratte in salvo
e tu
senza più rotta né timone
accusi il contraccolpo e poi
l’abisso.

Ironia un pixel

Aspetto il segno della luna
a falce
circostanze di smog
non ho lanterne e il pattinare
al buio
sa di fatica temeraria
quindi
bisaccia in spalla
per la strada dei corvi
a farmi denudare di me stessa
nella penombra tendere
le braccia

sarà un giro di do
smaniare in petto
e pulsazioni della giugulare
battere di tastiera
in disarmato credere
Vedi?
Ci sono cose sotto il sole e cose
nel profondo di me
lancio di note acute a precipizio.

PHI

Son tutti andati
chi per un verso e chi per l’altro
scontornati di rose e di drappeggi
baffi rivolti in su, boccucce a cuore
sedie rigide a fare da spalliera
e fondali di carta color seppia

disegnami stasera blu turchino
numero irrazionale
rendimi l’eco il peso la misura
se di coppella in fondere mi sciolgo.
E d’un calco perfetto
la conchiglia
divina_mente armonica
rivesto.

CAPELLA

Sprizza faville il fabbro
ti rimescola il sangue in congiunture
e ginocchia serrate sulla panca
dove la capra mai
campa né salta
è sale che le gusta
o salnitro di vena giugulare
assaporato piano, lei è là
a scontare parole, s_numerarle… ah.

Le sarebbe sembrato il monte
erbaggio in sommità di fiato
dove potevi attendere
perché
simili ai suoi deliri erano i tuoi
ma t’imbrigliava il collo l’abitudine

ora la conta torna, e ti precede
scortata dall’Auriga
ai pascoli del nord
st_ella immutata

Anche parlava dolce

Sbucciala nei contorni la ragazza
di foglie a mezzaluna
iperborica
bùccine e cornamuse, le corolle
in ritardo a novembre.
Accostale l’orecchio sulle strie
di biacca-argento in sovrapposizioni

Nel ghiaccio una mannaia
decapita pupazzi sulla neve
inventa chiodi
al cantastorie penzolante a lato
il tirapiedi lucida la lama:
ti è dolce amica mia? Così ti dice…
e cerca il punto

A fidarsi di voce io sensitiva
m’impaniavo nei cocci di sorriso
non supponevo che la morte è ubiqua
e può attendere scalza
che ti giri.

A ripensare

Mi ha messo un pugno
di neve nella bocca
prima che fosse un bacio a
chiudermi parole impronunciate
vorrei vorrei vorrei
una sfilza di potenza in nuce
ridotta a un pugno di
nemmeno sabbia
ché l’onda batte dura
sugli scogli…

E cancellare impronte
prima d’averle impresse nella rena.

Eppure si può dire
a chi ha sostato stanco alla tua porta
vieni t’offro da bere
e presentare una bottiglia vuota.

Dorothy e il Mago

Non gridare se nasci d’autunno
se la tua voce è traccia del vissuto
la città di smeraldo ha le sue tane
e non temere il freddo sulle vie
battute dal maestrale
vieni a braccia distese
portami ombrelli rosa d’artemisia

ti disegno col dito nelle fragole
i contorni di Oz
e tu da quel velario che separa
giorni di grigio dalle luminarie
scrivimi fiabe a margine
ti leggerò le labbra
e basterà.

La strada per il molo

Hai sogni dipinti in verticale
come gli occhi dei gatti
tristi di vissuto a gabbie
per infinitesimi chiacchierii riposti
scaffali imbarcati al centro
a sostenere il peso
dei miracoli

una cicca d’avanzo tra le labbra
il respiro invetriato nella tosse

mi prendo tempo e giro oltre la strada
a filo di gessetti – il marciapiede
dilaga di madonne
dipinte con l’assenzio ed il vetriolo –
non è tempo da tetti né comignoli
vieni sul mare
a guardare velieri controluce
doppiare l’orizzonte e il calendario.

Non mi muovo

Colmata la misura del travaso
sotto la pelle ammutolisco
viso di cocciniglie smalto rosso
un sorriso perfetto
a cancellare tracce di vissuto.

E l’ho intravisto:
appena un cenno
un raccontare assorto
di giorni andati e di perduta luna
di vicoli traversi
dove come fagotto di me stessa
restavo sola
in fogli ripiegati.

Mi ha vestita d’azzurro e di poesia
ma non ci credo ancora
che proceda così teneramente
e mi offra fiori

resto così a osservare
le sue parole lievi di cristallo
mentre non oso muovermi d’un passo.

Se non mi vedo

sfilaccio frange passamanerie sudate
la poltrona che zoppica da un lato
anch’io
è il mio braccio sinistro che s’impenna
un’ala rotta mi sbilancia il passo

se mi affaccio a me tessa
esisto solo dal torace ai piedi
non posso mai vedere la mia testa
sono dentro uno specchio
che m’invia
una fandonia raccontata al tempo:

sono solo un’ipotesi nel vetro.

eppure volo.

Notifica a ciel sereno

che tu deponga adesso
Vita
il tuo sorriso da gioconda
alle ferite accorrerei
lo stesso, e se la lente
in cui guardavo il microcosmo
dei fatti secondari
le azioni scaturite dai condotti
in cui scrutai l’ignoto
si annerisse
te lo direi con il residuo fiato
che il silenzio è peccato originale
è meglio un grido
Madre
di una lacerazione all’infinito.

Longitudine

mare di ignota percorrenza
un gradino in cambusa
al terminare scale
o capitano
ascoltavi deliri e riposavi all’ombra
di te stesso. Io raccoglievo in fogli
e paratie
la mia vita sommersa

sognavo di remare alla catena
e nell’affanno della latitudine
mio capitano
cartesiane e trigoni
non consentono attracco.

Appoggiami l’orecchio sulla vita
trentatre sessantaquattro mille
mi dispiace dottore – non ho abbastanza fiato –
dico zero.
Ti concedo il mugugno
marinaio
e un remo corto per il tuo rientro
stringiti il ceppo alle caviglie
quattro misure d’aria.

Intaglio dell’olivo più ritorto
polena immersa seni e fianchi all’onda
cellule staminali e dio risorto in
affondare lento.
Perchè prestavi ascolto
e tendevi le mani ai miei riflessi
avevi sete e ti porsi la bocca di ruscello
o capitano
volevi anche di terra e di colline
cicale imbavagliate alle radici
albero ancora infisso
e non sirena dalle gote rosa
a tagliare riverberi nell’acqua.

Un astrolabio almeno
una cima di scorta o un suono acceso
battito d’una sola mano
è il porto

Pareti

La stanza delle ore di carta
profuma si salsedine
si ammorbisce agli angoli
quando divento linea
e tremano le cose

da spigolosa si fa bolla
io come manta
nuoto in perfetta sintonia
col dentro

solo i capelli dicono che sono
ancora superficie
in quanto abisso tra pavimento
e nuvole
scocco di me il pensiero.

Oltremusica

Si affaccia alla cornice
taglia la convergenza e il filo
a piombo
io mi sorrido sola e trovo i tasti
corrono sull’allegro e sull’adagio
variazione di gesti a contrappunto
il timpano rinvia in mi bemolle
l’organo avvita il tempo
e soffia canne.

Mi porge di rintocco
scampanellii fraseggi dondolii
l’anima nell’udire si fa carne
ovunque il palpitare di scansioni
ha flussi espressi
incantamenti sincopati e forse
un colore di fiato

ardono i miei falò sull’oltre-suono
dove tendo le mani
alle parole.

Mai

A pugni alzati
cielo della tempesta a tracimare
vasi d’argilla ai piedi del titano
affogo ma il mio grido
o rombo di vulcano che
sputi il suo grembo
mi avrai fiamma e lapilli
non muto piangere a formiche
di gocce né lombrichi

smuovi placche tettoniche
apri di faglie il sangue della terra
e qui che scorre il dentro
tu sei fuori
dai giochi e dalle braccia
di madri
di gemiti del ventre tu
non conosci il dio delle viscere
sai forse la piaga
o il sapersi di pietra?

Il vero dio
siamo in frammenti noi
noi che forniamo il senso
a croste
a buchi
siamo i teloni dell’impermanenza
perchè tu possa dichiararti eterno.

Finestra in cucina con vista sull’aia

Considerato il fondo del canestro
acqua non porterà
le gambe mi sorreggono che
al dire quattro più quattro
in presa diretta
raccatterei parole sgranate
come piselli sfuggiti dal baccello

ah, sì, raccolti sotto il tavolo
in quell’angolo buio dove non spazzo
salvo che quando vengono le visite
ma a voi che importa?
Mi tengo le ditate sugli occhiali
il vapore sui vetri come quando fuori
“non” piove (vi aspettavate il contrario?)

mi sono fatta un po’ di conti
giorni di più o di meno, i dilettanti
che si credono critici importanti
e qui lascio assonanze – e se mi va –
pure una rima, oplà

non vi permetto più di entrare in casa
con le scarpe infangate
e nemmeno l’ombrello gocciolante
il mio zerbino ha fatto rimostranze
ora vuole una sciarpa di chiffon
adagiata con tatto sulle scale

recate i vostri detti nei cortili
gli anseriformi in cambio di becchime
vi cederanno penne remiganti
càlami intinti nella
banalità, non quella loro:
le oche sono molto intelligenti.

Camera non_vista

Terrazzo il golfo esterno effetto mare
dentro
un lettino in ferro e lei riposa
ha capelli di sabbia
poca voce: – oh! un piatto di spaghetti
a vongole veraci
mangiarlo in piedi nella mia cucina!-

E non trova la vena l’infermiera

Signora mia, sapeste la bellezza
che le cantava gli occhi!
quant’allegria portava nelle mani!

e l’accompagna fino al parapetto
il lungomare occhieggia mille luci:
– dimmi quel nome –
– non me ne ricordo –
– era un film che parlava di una strada
d’una vecchia signora e uno chauffeur –

Sto toccando le braccia dell’inverno
e Sorrento profuma di limoni
– perché vortica il cielo? Me lo dici?-

– Non è l’azzurro a farti male
amore
è quell’ombra discesa nelle occhiaie
è il tuo respiro corto-

Il golfo intorno è una folata fredda
una scena di Napoli che dorme
ti bacio gli occhi
tu non la vedrai

domani andrò da solo

a nostra figlia
racconterò di te.

D’agosto

aveva tra le braccia il deserto
e le parole come in una boccia
domiciliate tra i ripieghi
la ragazza a bolle
dalle annate rubate lungo i muri

una vecchia corriera alla fermata
facoltativa

spegni quel faro
appòggiati sui gomiti l’estate
di cicale e dei
ormai s’è fatta notte

e quel lontano
giorno saldato a ceralacca
non raccontarlo più
nemmeno in braille

sulla tua stele incisa
manca una data
ma…

Tempo che fa

minima storia e mai
più d’ un sospiro
non ti racconterò di quando sola
resto seduta ai margini di un giorno
che non verrà – ché se venisse –
morirei per eccesso di sentire

e tu che mi sorprendi
per un attimo insonne o una mattina
di poche frasi – e pure basta –
tu che ti fermi al mentre
oltre le mani il tenero di donna
il suo centro disciolto
luna priva di cielo in cui brillare

però – sono sicura –
quel momento verrà che in un altrove
che sarò fiume e riva
di parole mai dette
cederai finalmente, e le dirai.

Di pontili e lanterne

Chioma d’argento
fiaccola
non si ritrae dal molo la risacca
vedesti le mie spalle
le sfiorasti di specchio
di classifiche a tempo il sussurrare
nell’ordine convesso
navigasti sui flutti del con_senso.

Una lucerna sulla cima di scogli
il mio segreto
l’unico che conosci
barlumi circolari in acqua smossa
tu soltanto una voce
a farmi cenno
io soltanto una luce
d’allegria.

Anch’io

quando sono sola
danzo
metto dei fiocchi rossi nei capelli
e la mia pelle va a singhiozzi d’aria
mi pulsano i contorni
le domande le chiudo nell’armadio
stanno bene con scheletri e vestiti
che non indosserò
mai più.
Ora dipano frange
sinuose di liscio
ahi! Se mi giro
l’anta di specchio è un corvo
ma lo faccio tacere con l’inganno:
gli appanno le sporgenze e le rientranze
ammicco di smeraldo tra le ciglia
labbra rosso granato
e sulle anche
mi delineo leggiadra in movimento
sono bella, Dio mio
ma ne ho paura!
Se ci credo mi lascerai tentare
il passo ancora d’una sarabanda?

Età

Una dorsale a vertebre d’avorio
terminare d’aguzzo
profumato di vita nel rovescio
dove morde l’affanno
alla tua età che – dicono –
essere di saggezza e di rinuncia
tu batti i piedi ancora

alla tua età si addice il nero
non lo scialle andaluso
e nei capelli un segnatempo a scatti
non pettini bordati di vermiglio
a scriminare argento
a separare
il tenero dell’ombra
nel concavo d’ un grido

Anche questa

Vedrai
verrò d’estate con sei soldi e una sciarpa di seta
di bellezza sicura – me lo dice –
luna dagli occhi verdi.
Parto
faccio il biglietto e arrivo
preparati all’evento

Ahi! Teme il peggio e si ritira a monte
gli vacilla
perfino il desiderio – ora lo teme -¬
più dei cinghiali inferociti a caccia

si tratta di loquela in assenza di corpi
segreta intemperanza di parole
in mancanza d’azione
e vuoi chiamarla amore?
Quando sei solo il morto
del tressette.

Acque profonde

livrea di fiaccole minuscole
in fila sulla schiena
a fluttuare
alicia mirabilis in approccio
barlumi e disincagli

luna d’avanzo delle beatitudini
hai forse braccia
da svendere al mercato dei polpi
o tranci d’anima
serbati in salamoia per pescecani
in trasferta

e se mi adagio a fossili
di laminarie se
di me s’irradia il solco nella rena
mille piccoli stomi di madrepore
baciano nudibranchi sui fondali

Atlant_i_dea

Guardarsi intorno e l’acqua che dilaga
negli interstizi in cui
trapelano rosari e japamala
ora sommersi, taciti di morte
apparente
ma l’acqua non doveva trasmettere vita?

C’è ancora un cerchio aperto
che si allarga
e campane assordate
alghe
al posto di abeti.

Il mietitore non ha più la falce
ma sciabiche e siluri.

Mi rintano tra foglie di biloba
tra bolle di sargassi
non respiro di mio
so che un mistero
ventila paratie nei miei polmoni
già quasi branchie.

Ali di un giorno al sole
oh! Dio dell’impossibile, ti prego
dammi un volo di vetta
sono stanca
di tutto questo sale.

In rotta oceanica

Ma li avete ben guardati i sirenidi?
Ditemi, allora, quale
oro, broccato o seta li riveste.
Avete fatto caso alle ondate randagie
udito i canti
dei dugonghi poeti?…
sono maree di vuoti
lune traverse appese ai litorali.

L’ostrica invece nutre
misura d’ippocampi a rete minima:
è mio quel mare, è mio quell’arco tondo
è mia la perla.
In serratura ermetica le valve.

Non ha fratture il dorso della pietra
che sia roccia di terra oppure scoglio
piedi saldati a coda, l_amantino
mugghia sul fondo.
Ha già ingoiato l’amo.

COVENTRY

Non i capelli a manto
lady Godiva
a ricoprire trucioli
vita scolpita a concavi di nulla

cavalchi l’ombra
intorno ride il giorno
ma tu non sai che il viso delle gioie
è finito da tempo
e cerchi ancora il luccichio
la fossetta sul mento
e sì che te ne vai pezzo per pezzo

fermati adesso, lady
raccogliti nel grembo
prenditi il senso delle luminarie
e la staffetta con il testimone
con nuovi finimenti e nuova sella.

Oche Pickwick

Per una manciata di piume
calami ancora caldi
non inchiostro di china
sangue piuttosto
gocciolare di segni a lutto
tra le righe e il fiato
dipingersi la bocca di violetto

Signora mia, funziona malamente
il mantice di carta
l’organetto si stringe
sei cipolle dorate in bella mostra
per cambiare discorso.

Chi ti conta sul suo pallottoliere
a bolle di sapone
tira la somma che non torna mai
un bel viavai di nulla
intercostale

Considerarsi luci
selvatiche di cielo
quando si è solo sassi di morena.

Ex voto

Ho scritto parole
che non hanno battenti.
Ah! Le avessi pronunciate tu
sarei di fuoco
nel percorrere piazze
a raccontare immenso

Di memoria e di fiamma invece ho pianto
la notte avara
il tonfo dei silenzi.
Ho fatto un fascio allora di catgut
suturandomi il dentro
e l’ho deposto in pegno
sull’altare del dio delle ragioni:
che non sia spreco d’anima.

Alfa privativo

Dall’altra parte della vita
sono le donne svolte, le guardiane
dei regni di Ossian
arpe nel vento
le signore dei canti e dei crocicchi
Ecate assorta a raccattare pezzi
nella casa dai mille corrimano
lascia su piani a-critici il sentire

all’esistenza e al nome a-sessuate
rammendi a parte.
Itinerari tracciati sulla pelle
incisi a punti e strappi
mappe a-morali
senza cartelli strade all’inferriata
l’altra metà del cielo che s’inerpica
per mammelle accoglienti a devastare.

Avanzate di voci a cetre spente
incastrate nel ventre
a-sperse d’irreale
sulle tracce cruente o cicatrici
d’altri asporti chirurgici
la terra non ripaga le sue amazzoni
e nei giardini i pomi delle esperidi
restano appesi ai rami.

Chi sogna Che

Meno d’un fiato è il sogno
della vita
dall’agglomerazione alla scompagine.

Se poi sarai preghiera
dalla cima del mondo a sventolare
lungo rosari e tanka
tu, sarai il sogno.
E allora
sogneranno di te faggi e sequoie
stormiranno il tuo nome le montagne
e chiederanno al dio delle galassie
perché ti nascondeva nella carne.

Se ci sarà risposta alle domande
e col tuo sangue venga scritta in cielo
quella fame d’amore che ti uccide
sarai tu stesso il sogno
dell’universo intero.

Perchè non ti guardo

Cosa è rimasto di te
compagno di quei giochi speziati
sulle dune d’argento
della bocca odorosa di maggio
nulla è rimasto, nemmeno
quel guizzo improvviso negli occhi
a riparo dell’eros

volavano le folaghe, rammenti?
E sul fiume gli aironi
scendevano in planata
noi restavamo immobili
poi mano nella mano
raggiungevamo casa
e il nostro letto.

Questo è terreno che mi manca
e non posso avanzare
ché se mi guardo indietro perdo il cuore

farò finta di niente
rivolgerò lo sguardo alle pareti
per non farti sparire da quei giorni.

La Méduse

Percorrerò le vie dell’ancoraggio
in moto ondoso

sulla zattera c’era, ed era udibile
la nota persa, la distratta cima
a me non data
eppure avevo tra le braccia fiori
e pensieri d’incanto

dov’era mai il buonsenso
nel mareggiare
se la nave affonda?

allora mi dipinga Géricault
l’ultimo attracco
prima che il mare inghiotta.

Non c’è ragione

Tu che hai capito tutto, amico mio
che ti logori in slarghi a ruotagonna
tu chino su caviglie e trafitture
affanni e mezziguanti

prenditi pure tutto il tempo a valle
ché in cima non avremo altro che vento.
Se tracima di te l’evanescenza
d’un frullo tra le spalle
tu lo rinnegherai, perché l’inferno
stupisce il corpo e non lo fa pensare

Orma di noi
che guardavamo il cielo, idioti perfetti
non resterà più traccia sulla terra.

E sarà giocoforza ancora
andare.

Tattica

mi stringo a nodo
per non espormi
totalmente a nudo.

Contromisure

Oh, beh, sì,
potrei parlare di dolcetti al miele
certo potrei
anche di quel loukhoum pistacchi e rose
e poi tutta la gamma dei colori
potrei metterci un tango
o il quartetto per archi in fa maggiore
potrei farvi venire
una crisi glicemica

invece no,
giro la sedia a vite
in calzamaglia
immagino trent’anni e lui be-bop
muscoli e fiato
forse una spruzzatina di far west
e
pupa vieni qui, fatti baciare
pizzi neri e due fucsie tra i capelli
odore che – miodio –
potrò mai farti giungere in ritardo

oh, beh, certo che sì
va tutto bene
hai portato le coppe mon amour?
Vedrai, stanotte un angolo di luna
la cantilena a mantice di un gatto
suggerire deliri
e tu lo vuoi.

Fantasma di Via L.C.

Stamattina mi cerco tra i vestiti
ero sicura d’esserci
scruto bottoni e pences:
io non ci sono

È tutto intorno, il mondo
che prosegue e trilla
sboccia di maggio e piove
qualche volta mi abbraccia
tira con l’arco o replica uno show
usa gesso e diamanti
t’incolla ad un pc

così mi veste il mondo
e di pensieri molesti mi sopprime

Fuori stagione

Accordo in soffio d’organo
respirare di canne, e di ghirlande
fiordalisi e frumento
nemmeno fossi carta da parati
a srotolarmi in camere d’affanno
immanente la pioggia
e il contrappunto

che lo chiamavo amore -ecco lo dico-
curva di adagio un sopracciglio
ala di viso stanco

adesso
il piatto piange al buio
ma non rilancio
si prepara un’estate di cicale.

Interruzione

Mi sono appena scorta a pencolare
sulle gambe, ragazza
ancora sporta sul davanzale_nido
mano aggrappata ai fili delle vele
camicie ad asciugare
e sono là
mentre passava il treno delle ore
mentre si disfaceva il pieno
e sempre più gli ammassi degli amori
subiti – bisognava pur farsene ragione –
lasciati indietro a reclamare massima
attenzione, arco di me granito
s’ipotizza d’avermi a tutto sesto.

Nel dissesto di me che invece resto
come incompiuto volo
il seno bianco, le spalle ricettacolo di piume
chiedono tregua al tempo
– mia diciottenne appollaiata luna –
nell’estate d’allora ammainata
la giovinezza all’asta in preda al vento.

Non ci saranno braccia oltre la rete.

Basterà aprire quelle dita
e poi…

Con_sensi

Sonnecchia
le gambe già ricovero ai sensi
affiorano torpore
mani quelle dei giochi
a buccia persa labbradicorallo
t’appartiene nel sogno e solo in quello
ti traccia amore intorno, t’incatena

Non puoi lasciarti andare
eppure se ti adagi e circonflesso
respiri il tuo sentore, il tuo sapore
in cogliere te stesso. A perdifiato
vieni a introdurre suoni
qua
che sparsa lei non si controlla
che si dissalda e perde e si disseta
ad illusorio chiocchiolio di fronte.

Tu immagini
le sue gote d’avorio, le sue anche
le colline dei versi e degli inversi
giada nei solchi a valle
a raccontarti muschi d’ombre arrese
di lei conosci suoni, ma non sai
qual’è il profumo e il cavo dei suoi sì.

Ossimoro io

certo che sono a vento
manica arrotolata
mi darete due lire in fondo al pozzo
dei desideri in nero
io mi nascondo nei pressi dell’ascella
sono radici d’ombre

ma voi non lo darete da vedere
bisbiglierete un frettoloso addio
detergerete zigomi
e stringerete il cuore tra le costole

quando sarò l’erede di me stessa
cresciuta a vita
condannata a morte
vi condurrò con me, siete miei sogni
di come non vorrei restare sola

vi creai per paura

ora fantasmi voi, chi sono io?..

Che cosa mai

Forse petali sparsi in un agguato
di fasci d’erba
forse fili bevuti dalla fame di luce

occupati a sgranchirsi le caviglie
a piedi scalzi, il saio ci manca e nel
cappuccio l’aria di santità
non ci si addice

è un io basfemo – io lo dichiaro fiero –
quello che mi conduce nei deserti
libero da vangeli – è un io che tace –
quando occorre morire
oppure dice di triboli irrisolti
e santodio delle bufere
santamadonna dalle mille facce
prendono barche grandi come chiese
i pupazzi da scena

per questo vado nuda
dal momento che guardo nel mio sangue
stretto fra i denti il fiato
e nulla mi condanno
anzi mi assolvo con il mio furore
di belva mite cui non è la voce
a farsi grido
ma la carne di cui l’hai rivestita
la stessa che fissasti su una croce

vuoi che ti dica?
Meglio di no
meglio che tu non sappia.

Nessun dove

Ovunque spazio chiuso
in ricacalcare giri

basterà discostarsi in solitudine
e scrivere sul palmo con la biacca
oppure il sottoscala
tingere di pareti in segatura
le cantine depositi d’addii

non basteranno lenti bifocali
per osservare il centro
l’abbandono è una cesta
che ruota dentro un muro

avrai il cordone mai reciso
tu mille volte partorito
e non ti basteranno le carezze
per quanto delicate sulle dita.
Allora ti prometto
non scriverò di te, ma di un amore.

ale_SATURA

Di lima tolgo pezzi
li assottiglio
stralci di vita e segni
dal troppo lesinare infine stallo
in quasi-niente

allora vado
per elemosinare un quarto d’ora
trasferito al momento

ne vuoi di più?
ce n’è di meno?

s’allunga o accorcia il paradiso a entrare
nell’asole i bottoni
tu che ci perdi il fiato
non capisci
rubi tramonti e cieli
li fai passare in fori circolari
a cappio
e stringi
il tempo in un oblò
minimo dire
quando fuori l’eterno.

Il prigioniero

Io la sentivo la voce che piangeva
alla finestra, tra gli orologi muti
nello spiraglio tra parole e gesti
acqua di meraviglia nella mano
offrivo alla tua sete. Intorno il mondo
girava tra le maschere in attesa.

Mi sporsi a carezzare il tuo grigiore
i tuoi resti di vita incatenata
alle pietre di un fiume senza foce
funi di sbarramento alle ferite
ricevute ed inferte, a farti peso.

Volavo basso,
appena il tempo di guardare indietro
impronte quasi erase:
colsi il bagliore d’anima riaccesa
ma durò solo un fiato.
Ripresi il volo
le cicatrici a farmi compagnia.

Tu siedi mesto in abito da scena
di parole raccolte in poche righe
in assonanze alcuni dei miei versi
ma lo so ch’è soltanto il tuo gridare
quel sì fossilizzato nella pietra

Altri secoli ancora e lo dirai
perciò ti aspetto.

Provvedimenti

Luci di un giorno rimediato
una sequenza muta
a contraltare il coro
di litanie pagate a sangue e ceri
lustrini d’oro e passamanerie
affrescano d’incenso
le logge ed il sagrato.

La mia mente confusa
vorrebbe una ragione
per quelle urgenti cupole di chiese
ricostruzione lesta
le case invece le facciamo in tela
antisismiche
e il popolo è al sicuro.

Essere basta all’essere

Cosa dovrei chiederti
girandole, stelle filanti?
Nel carnevale dei giorni presenti
gli uomini togati
accanto agli assassini
tutti con scarpe uguali
la sabbia riempie l’orme e le cancella

da tendredini a nuvole
parla in dialetto, Dio
ciascuno il suo
se talvolta si sbaglia, un tirapiedi
coglie fischi per fiaschi
e dice al mondo: vi parlo a nome Suo
e allora pasqua arriva come vuole
e nessuna quaresima perdona

perché se Lui pronuncia una parola
l’unica ch’è la stessa in ogni idioma
viene fraintesa, trascinata in strada
e crocifissa
o trasferita al cielo
e quella sola la diciamo sbagliata
perché AMORE
non si può pronunciare
AMORE è.

Dove trovo il perfetto

Se ti guardo negli atomi
se ti sento nell’anima
fratello
avverto Dio

MADRE PER SEMPRE

Polvere sopra i gesti che furono
e avevano impresso un circolo alle cose
il gioco a rimpiattino e grida
gioiose, il latte, il tocco
respiri trafelati: non correre ché sudi.
E in fretta con la mano a ravviare
ciuffi ribelli.

Dove mi porti
adesso che ti manca l’aria ed io
non sono in grado di trattare
la mia per la tua vita
dove mi incroci con le dita sporche
a scavare distanze dalle mie braccia a te
chi più ti cullerà
chi ti rimboccherà la notte e la paura?

Che ti accolgano giorni intramontabili
carne della mia carne
e in un ritaglio di calore atteso
oltre la ninnananna che mi tace
aspettami al confine dell’Eterno…

Grazie

Oggi scrivo dell’essere appagati
enumero le gioie della mia vita
e dico grazie
primaditutto per essere nata
ed essere cresciuta (non tanto, in verità)
e poi sopravvissuta oltre il dolore
Ringrazio ancora per avermi dato
un compagno fraterno
e quattro figli che sono i miei amori
e i loro figli con le loro madri
e ancora grazie delle belle cose
che ho percepito con i cinque sensi.
Sono grata per tutto lo splendore
d’anime belle che mi sono a fianco
delle amiche fidate
dell’arte delle mani e della mente
che non mi sia mancato il necessario
spesso ho avuto il superfluo e il piacere
una salute relativa buona
tanto da superare prove immani.
Un cuore forte che resiste al gelo
quando la vampa lascia poca brace
e di valzer danzati sotto un melo.
E grazie ancora
per la luce del giorno
per la notte che avvolge di velluto
per le parole uscite come fiori
e poi di questa voce che mi chiama
per raccontarmi in lingua di poesia
me stessa e l’altre cose…
Grazie per la fiducia a me accordata
di farmi segno e luogo d’accoglienza
d’avermi fatto dono anche del gioco
e inoltre
d’avermi risparmiato il dispiacere
d’essere irreparabili i miei errori
d’avermi dato giorni in quest’autunno
di sensi accesi e abbracci ricambiati.
E grazie infine
per questo mondo in cui mi sento accolta
seppure virtuale
tanto tutto è reale
ed è sentirmi viva l’importante
essere amata è un bene,
che sia pure distante, è sempre tanto
una voce che ammalia e mi sorride.
E grazie ancora perchè posso amare.

Apparenza

Cosa ti fa concedere alla notte
il pizzicare cetre e farsi andare
in liquide impossibili fusioni?

Sbadigliando alla noia
c’è chi si perde in musica a ferraglia
il cuore che si accoccola di lato.

Perduto nel riquadro del mattino
allo specchio non vede altro che il viso
l’anima l’ha rimessa nelle scarpe

E va nel giorno
senza fare l’ombra.

Brevità

Ti dono i miei capelli
amore delle lontananze calve
degli aghi che ti pescano la vita
a fil di vena

ti porgo la mia taglia
di donna rintanata nei vestiti
misura d’ora, e scarpe
comprate nei negozi da bambini

mi basta poco spazio
un intervallo tra respiri fiochi
una parola appena sussurrata,
uomo delle mie braccia vuote
dei miei gesti taciuti,
e la mia voce.

TiO2

Vedrai che imparerò l’arte del fuoco
e non avrò che un’oncia di metallo
pagato a peso doppio
schiodato dalle travi di una vita

affonda nel mio corpo
di titanio l’azzurro nelle ossa
io fucina di rose e di pugnali
terra colata
in forgia d’oricalco

sulla fronte sbocciare di una stella
sfavillare di un ohm liquido in vena
esistere nel fiotto di un istante.

Per aspera

Ancorata al respiro
viso rigato all’agave d’argento
spine in un vaso
ora di brace, ora di nenia antica
spossatamente
vivo

e ancora sono qui che mi riannodo
scarpe e silenzi
che mi ritingo d’ocra mani e minuti
ma li sbianca il sonno

noi venimmo dal tempo
ch’era il mare un ritaglio di cielo
ed esultanze, ignote geometrie
carezzavano addosso.

E poi dimenticammo.

Adesso veglio, sola, a ricordare.

Proroga

Sapete quando le chiazze di salnitro
assediano pareti
quando il soffitto scende quasi al petto
parallelo alle luci
listelli di persiane?
Abbandonarsi al buio non è richiesto
e neppure le lastre di paura
pesano quanto il dire.

Aveva mani
coperte a mezziguanti
l’angelo delle pulizie di primavera

gli chiesi di restare a notte fonda
ai piedi del mio letto, sui guanciali
dove ammassavo sogni
e per paura
non osavo dormire

nessun uomo a tenermi fra le braccia

il medico: mi dica trentatré
ma niente risonanza, bypassare
oltre l’aggeggio (ricordate lo Zippo?)
bisogna ringraziare con due ceri
sul tavolo da tè

perché se c’eri
e ancora ci sarai, sia tanto o poco
sulla cartella è riportato chiaro
ch’è soltanto una proroga.

Di favole e cancellazioni

Ti raccontai l’eterno
sbirciato dai cancelli
mentre scorreva il giorno
e l’ombra disegnava nomi e vite

ti narravo di fiabe
che assecondavi per alcune ore
– luna narrante – io voce
lingua argento

ché tu andavi di fretta
a rincorrere gesti d’abitudine.

Mi spostavo di lato al focolare:
nella foto
scomparvero i miei piedi
prima d’ogni altra cosa
e poi le mani

non bastarono segni né colori
il profilo s-tagliato contro il mare
frammentato per sempre in un tangram

DE-COSTRUZIONE

Ancora un piano e quindi il tetto
a martellare giorni
andirivieni, secchi di calcina –
hanno le braccia stanche i muratori
e non la casa
che di muri eretti sfugge loro di mano –
quella sarà abitata dalla gente
le serrande già scorrono in cantina

vedremo rimpiazzare alberi vivi
il prato cementarsi in grigiomalta
vociare nelle trombe delle scale

qualcuno sale a trasportare fiato
e già un corteo s’avvia
ala di nero, il vecchio se n’è andato
gli hanno messo un rosario tra le dita
l’hanno fatto passare dall’androne
dove prima fiorivano gli aranci.

E qui dai vetri scorgo oltre le tende
il non andare mio,
percorso d’ombra, l’ultimo trasporto
di un cuore finalmente tacitato.

VIENE STAGIONE

L’anima mi sussulta
cedimento
in questa vita già disabitata
traccia di sensi
a ritornare maggio

sorge lungo crinali
d’amnesia
una voce riversa
e bellezza d’ argento veste ancora
nell’incipiente azzurro-primavera.

L’anima mi sussulta
cedimento
in questa vita già disabitata
traccia di sensi
a ritornare maggio

sorge lungo crinali
d’amnesia
una voce riversa
e bellezza d’ argento veste ancora
nell’incipiente azzurro-primavera.

ORA X

Vediamoci
nell’ora vuota
io porterò un non-fiore
e vestirò l’inesistente manto
intessuto di vento, il viso adatto
a sgomberi di gesti
niente di più
niente di meno
in bilico sull’orlo del giudizio
fermo alle ventiquattro.

Se arriverò per prima
aspetterò.

CHIosa

Regalami una corona di sospiri
e tutt’intorno come luminarie io
festa di paese
sagra delle mie tenerezze
una e mille
a fasciarti di lune traverse
e pure nei silenzi di cose normali
di questo mondo che non ha richiami
alle nostre feste d’agosto
mi pongo in asterisco*

*l’autore qui si tace

ma ti giunga in corolle sulle labbra
presenza tra le assenze
nel dormiveglia accenno incandescenza
venire
nel tuo mondo
io qui nel mio
disgiunti come sempre in parallelo
nei riquadri di un attimo pagato
in tariffa speciale*

*l’autore ha chiesto un bonus
fuori lista
ne ignora l’ammontare.

QUANDO UN COLORE…

In mari di giunchiglie
è giallo il tempo
quasi che avesse un solo raggio
e non le pluridimensioni ignote
A noi ritorna il resto
a decimali
e mai si quadra il cerchio.

Numeri primi
e sai ch’è convenzione
zero-uno

io sono tre
perciò possiamo andare
oltre le facce assorte, oltre
le pigrizie di un corpo e ancora oltre
a sfamare d’umori ombre raccolte

ma nessun Dio che insegni l’infinito.

IL PALOMBARO INABISSATO

Addenta l’orlo di un relitto
il sapore ricorda un’amnesia
ruvida, da camera iperbarica.
Andava a fondo il suo guizzare
in asse al filo d’orizzonte che
inarcava l’acqua.

E spoglio moto caudale
parallelo alle sagole
in sciabordio fuori carena
il canto di sirena, il raggio
sullo scafandro
e dentro
pulci di mare a scomparire un uomo.

SEGRETO

Spalmato in agrodolce
sulla panca di pietra
gesto riflesso al verderame
il pozzo e il secchio in splash
pubblicitario
ne rifulge d’assetto clownesco
il dire e il fare di volpina fama.

e non voglio conoscere
altra paglia…

LEGEND

Raccontava di un posto dove l’aria
era suono, geometria la luce
e dove il tempo
scompigliava logiche
non c’erano però campi di grano
né ciliege a dipingere sorrisi
gli arcobaleni tanti
che a distinguerli mai
e note sovrapposte d’incantesimi
ma un bacio
il raccogliersi dentro
a raccontarsi morbido e bagnato
quello non c’era
e se
fosse questo calore
il paradiso?..

MENO UNO

C’erano gigli all’ombra
dove finisce il muro delle scale
i dianthus dal profumo di cannella
chiazzavano d’allegro il muro a secco
ed io seduta al centro dell’aiuola.
Count down
voglio considerare adesso gli anni
cominciando a stonarli dai ricordi
il segnatempo lo riporto a zero
la silice nel vetro, le mie orme
a precedere i piedi.

SMARRIMENTI

Bukowski sulla strada
stropicciarsene mentre c’è chi spara
nel mucchio ch’è selvaggio
si potrebbe annunciare un desiderio
denominarlo tram

ho il cuore in quarantena
chiamatemi se un falco per errore
avesse perso
il segnalibro a margine
del labirinto scritto intorno a me.

TRACCE RIMOSSE

Correva sulle ombre dei bambù
onde di terra
ragazza dalle spalle bianche
e nella cera il marchio
di gravità dolente

il caprifoglio a limitare strade
mai quiete
zufolare di canne, Pan-delirio
nell’ugola di sasso. Accentarsi l’aiuola
falcidiata
dalle suole chiodate
lo stesso muro scarno dalle pietre
scosse
le grida impresse, l’aria
sepolta dentro l’arca dei ricordi.

E chi ne ha fatto
semplicemente un dato come un altro.

ACUSTICA

E grido al sasso
un sussurro di sangue tra le sillabe
all’orecchio di vetro, in scivolata libera
senza lasciare bava né fruscio

cosa può mai una voce che non lecca sentieri
che al fulmine s’affida nell’assolo
e non è spada, è stelo
infisso nella sclera di cristallo?

GLAUKÕPIS

Capovolgendo càpita l’assetto
involontario
in primo piano
catapulta di nomi nella lista

visitatore
passa e annusa l’aria
di zenzero candito, ne ho una scorta
pizzica sottovetro in retrogusto

alzo la veste e mostro il vuoto
nemmeno a chiaroscuro nel rovescio
ma nel petto risalta il bianco perla
concavità di un cuore che straparla
E ride una civetta appollaiata
su frastagli di notte da smaltire.

MI HANNO DETTO DI OFELIA…

Voci di corridoio (locuzione scontata)
eppure dice
che l’oggetto ci sembra in dedicato
verbale
allora qui domando se qualcuno
l’ha vista nello scorrere del fiume
o dormire
o morire
o l’uncino di un albero di acacia
l’abbia trafitta in salvo

a me pareva
d’averla tra-lasciata
a tra-spirare in vasi di cantina

Nel dilemma
mi annebbio e mi dibatto
considerato che
se sono matto, se racimolo aut-aut
dalle rovine
di un castello di carte (Elsinore, sapete,
è un luogo scritto) niente di fatto
non sono più sicuro del mio nome
e dell’Ofelia
ho perso ogni contatto. Mi darete notizie?
Mi farete sapere se son morto?..

vostro
Amleto

pROSPETTO

Macerarsi di foglie nello stagno
sullo sfondo di ninfee sfiorite
luna riflessa sbianca l’oltreterra.
A fronte di sorgente
in cavità rosseggia fiamma
ali di drago leggendaria resa
in petto alla fanciulla batticuore
E adesso un bacio
su pelle verrucosa e dal batrace
il principe ritorna al suo sembiante.

La principessa si trasforma in rana.

SENZA ETA’

appollaiato sugli anni
spazia
sui dintorni dell’anima

Sente la vita sparsa nelle cose
scrive d’ amore e morte
l’infinito

in verticali libere
voli di frasi strenue
percorrere gli inferni e i paradisi
come se fosse noto il loro assetto.
Chi
travasa
fra le pareti e l’ombra?

VIA D’USCITA

Schiudo ai confini di tegole sbilenche
ruggine a fare buchi nelle gronde
ciuffi di tarassaco in giallo.
Vuoti di colpe a rendere
le mani.
E non mi troverò
tra legna affastellata e fiati arresi.
Un altro incerto andare voglio piangere
come di voci nelle strade il verso
sussurrare ai passanti delle lande
il mio nome sparito nell’inverno.
Per liberarmi lascio le mie ali
nella teca di carta.
E resto al suolo.

CASAMIA

Vivevo nello spazio
d’una dimora accesa in un rettangolo.

Un tasto che mi spense.

sembra silenzio
Dire di amore trasportato al fiume
passato fra le dita
acqua di ciglia
anima che si piange nel cristallo
lembi portati via terra di terra
carne di carne addii
sento tremare dentro le altre voci
gesti mai più accennati
volti di figli quasi ormai sbiaditi

e il singhiozzare muto delle madri
come scavo nel petto
a promemoria
di quegli abbracci mai portati a fine.

Non oso accarezzare quel dolore
resto sul bordo di un silenzio amico
a segnalare
una scia che si accende in “Alto Loco”.

ÀNCORA ANCÒRA

Di movimento e flutti
àncora estorta al fondo
dove la linea al mare cede il cielo
scendo e risalgo ancòra
Attendo l’onda che travolge e squassa
e che mi lascia, frammentata scia
sparsa di mille fogli e mille addii.

SHOPPING

I gesti distratti quasi liquidi
in permuta sul banco
dietro il commesso esige
vuol decidersi o no? leggi negli occhi.
Sete e chatouches impila
una volta palpatI fra le dita
e lasci andare
– compra?-

Diomio l’indecisione
tra velluti rapita e morbidezze
da fartene mantiglie
contare fino a perdere le dita
e balbettare poi
– mi serve spazio, da stringere nel palmo,
non i sospiri di un tessuto molle.

Ho bisogno di Tempo disegnato
a colori d’eterno.-

BARCA

Avanzo nel frusciare dei canneti
chiglia di solchi scivolati via
vesti di cui respiro.
Stendo
tutta me stessa in breve
“tutta me stessa in breve”
e qui che rido
ci vuole poco, il periplo di me
basta una spanna

schivo grovigli, sguscio
e mi ritrovo
in mare aperto vela controvento

eSITO

Circonvoluzioni
dura madre pia madre
sfagno di concimaie
fiore di loto nasce dai viluppi
della mia vita organica

contorni e dissonanze
vado perdendo petali e ricordi
su questa via che pure
va sfumando…

PESSIME CHIUSURE IL TEMPO

cerniere che s’ inceppano, da esse non traspare
che un deglutire impigliato fra i denti.
Sulla gola pulsante è scritto un punto:
premere qui.
La giugulare guizza sotto labbra invisibili
segna il tempo di un sole ingoiato
a parole
di un generatore di frecce
rivolte all’interno

“e mai ti colpirò
mai ti farò che un pianto ti rovesci
ti porto nella fronte, dietro gli occhi.

sei le mie mani , i miei respiri, i passi
e dove l’erba e i sassi, calpesterò
sarai nel mio cammino.”

Zip

inCEDERE

Ci occuperemo delle cose giuste
noi che non siamo menestrelli
avremo storie di penne e cianfrusaglie
volgeremo clessidre all’incontrario

schiavi di veglie e di destini
a lettere maiuscole
titoleremo l’ultimo volume
giunti alla fine, forse,
ci occuperemo delle cose giuste

carnevale

Non ricordo segreti isolamenti
astro di veglie
la musa sciorinata per le strade
scrive di me ridendo,
a dirla breve
scivola sugli specchi e mi fa il verso.

Intarsio meraviglie
e mi sparpaglio, canticchio sottovoce
una pavana-gondola in canali
di smerigli e d’opali. Abita in nuce
il bocciolo d’eterno
la mia pace, che sulla fronte si sminuzza
in luce. Li chiamano coriandoli.

APERTURE A LATERE

Il sole non candeggia
la biancheria ammuffita o il seno brullo
né l’ala del cucù
filtra soltanto tra listelli e buchi
disegnato di punti su piastrelle
il piatto cede, rifornisce rose.
In deltaplano
funambola in assetto
gioca la mia ragazza dei silenzi
la muta dei ritorni e degli infissi
cardini sottotraccia
sa di quella finestra mai richiusa.
Qualora fosse il caso
se le porte sprangate a fil di buio
reggessero per anni
avrebbe almeno via d’uscita
il non ritorno sugli stessi passi..
un volo finalmente completato.

LA MONACA E IL VENTO

Portava storie frantumate e cocci
di luna e stelle
Chu-Yen dal sorriso amaranto
il cuore indifferente alle stagioni
accarezzata mai sulle colline
dimenticò la valle e scelse il cielo

Sotto il cappello, in una lingua amata
c’era un biglietto scritto a mano libera
si sforzava di leggerlo
ma una folata glielo strappò via.

giravolta

Capovolgendo il sopra il sotto
càpita il fondo in primo piano
assetto involontario
catapulta di nomi
il mio sotto la lista

visitatore
passa e annusa l’aria
di zenzero candito, ne ho una scorta
pizzica sottovetro a retrogusto

alzo la veste e mostro il vuoto
nemmeno a chiaroscuro nel rovescio
dita sanno d’aceto
acciaio nel petto
infisso un punteruolo
e spargi sale.

richiamo

Voce da mezzanotte e un quarto
segnalata in levare
mentre qualcuno traghettava impronte.

I grifoni rampanti sugli scudi
immemori d’azzurro
svuotano cassapanche nei solai.

Ora mi volgo a concertare pause
mentre lontano scivola
il rumore

Ora di molti volti

Ora bizzarra questa
cifra caduca
in dipanare versi
dove l’altrove è nido
sfumano sottovento
rive d’eternità
in trasferta di sensi
camaleonte il dire
unire è necessario
per¬corsi e dislivelli
rischiare di coscienza
e fischiettare.

Stendo quest’ora diafana sul greto
ombra non c’è di porto
né diporto.
La rena è testimone d’un abbaglio.

tutto a posto, no?

Una ressa al portello
e certo i figli andavano a giocare
a chi annegava prima

che piacere alle madri e alle nonne
avrebbe fatto!
avrebbero potuto finalmente
coprirsi il capo dello scialle
e stare mute immobili occhi asciutti
a reclamare corpi
nella Plaza de Majo

vorrete mica fare come loro?
vorrete mica il candido foulard?

Allora attente
se non vedrete rincasare figli
se non vedrete rincasare padri.

Ma forse il nostro duce ha già previsto
prima le donne , anzi, le nonne
e madri
così non c’è problema
e vieteranno di confezionare
qualunque cosa sembri un fazzoletto
specie se bianco.

scena

Facevo una danza
partendo da un punto
le mani tracciavano gesti.
La luna riflessa
calava
nel mentre

A CIASCUNO IL SUO MUNCH

I nostri giri intorno a chi ci amò e a chi amammo
aumentano spirali ogni volta di più
il posto delle coperte avvolge ora la pietra
il tocco delle mani ora disegna l’aria
e resistiamo al gelo

se un dio ci schianta il cuore
dopo avercelo messo dentro il petto
una buona ragione
bisogna che ci sia per questo strazio
non venga a raccontarci di bellezza
di tramonti e di mari quando, se pure in cima al mondo
il nostro brulicare è un solo grido.

Io non ti temo, i lutti che tu puoi dimenticare
i tuoi figli che stanno sulla croce adesso
e tu concedi ancora le stagioni
questi sproloqui miei
ogni artificio purché ci si distragga da chi siamo
questo non lo dimentico

e nel mentre apro parentesi tra bocca e cervello
e sparpaglio parole come samare
sapendo che in te sono il mio buio, e che
se mai ci sarà luce, non avranno spessore.

Potresti incenerirmi e non lo fai
quale giullare io sono che ti canto le messe sull’altare
della mia solitudine, e mi abbagli
con un pugno di effimeri piaceri e nei ritagli d’anima
mi siedi, bambino mio,
mio giubileo dei sensi, o mio martirio d’ombra.

Allora oso parlarti dagli abissi
della mia inconoscibile sostanza
prassi del divenire e mai di eterno
conoscerti
ma il grido mio ti laceri l’immenso
e ti sia eco
di questo oltraggio che hai chiamato
vita.

Riparalo se puoi
Noi siamo stanchi.

NESSUN LUOGO

Basta talora discostarsi e andare
ovunque sia il silenzio delle cose

farsi condurre dalla solitudine

una carezza d’impeto le dita
trattenere lo scrivere

Affiorerà sulla mia carta bianca
quando sarò lontana
nel mio volo

NON DI SOLO PANE

A lezione di cielo
fiori da battezzare
artemisia, asperula odorosa
tanto per dirne alcune
alle formule già mi suona il gong.
Di saccaromiceti ne parliamo domani
eh, prof?

Mentre scritto nel cerchio
un marchio di memoria
affonda in petto.

Briciole di non detto, a camuffare.

LA REGINA DELLA NOTTE

Scrivo per chi
non taglia l’acqua con le mani
affonda e non ha voce
stoppie nella sua gola sottoriva
all’orecchio del gelo
scrivo per lei che tace

in doppia solitudine
d’insenature e di colline
lanterne in fitta alberatura
ciafciaf scarpe di gomma
si chiamano calosce
servono mai?
L’Uccellatore ha timpani di vetro

Ma dove li hai nascosti
fiori argento?
Astrifiammante ha mani ghiacce
e nell’acuto
finirà l’assolo.

GIALLO

Profumo acceso
mani intrecciate nello stesso punto
osservare il ranuncolo
intensamente vivere.

TRA_colli

Bevo alla tua salute
amica ignota
col vino delle mie contrade
finestre di colline stessa scena
sulle bocche distanti.
Luna indiretta
appanna i corridoi della tua casa.
Forse non te ne accorgi
quadri per una tavola imbandita
e convitate amate da uno spettro.
Non mi conosci
ma ti porgo le chiavi d’un giardino
tu però non guardare oltre i cancelli
scendi piano i gradini
e se vedessi un’ombra scantonare
fingi di non vedere.

INCOMPRENSIBILE

Di un’orchestra sdraiata
a notte alta
lave d’insonnia liquida
svolta di tempo tra capelli argento
assecondare il fiato

e sapere che Dio
vive nei desideri inattuabili
perché troppo vicini al paradiso.

EPHEMERA

Sai
smarrirsi nelle tegole o negli orti
andare o ritornare
polvere farsi il tempo
alle grondaie
se ancora nel disperdersi in rigagnoli
sull’edera e calcina, infisso il raggio
in soliloqui tra le canne e il vento
portasse a puntellare ali con screzi
di cristalli fotonici
crisalidi
ultimi guizzi da intuire
non sarebbe che un salto
tra le brane
non più nostra memoria
soltanto una scansione temporale.
Sai.

COMPIETA

Ero con voi a metà
l’altra con Dio
non sapevate che ci fosse amore
anche dove il respiro si fa greve
non potevo descrivere l’altrove
ero con voi a metà

ora che sono intera
anche di fronte a voi
perché lo sono stata in verità
sempre davanti a Dio
prego affinché la sorte dei nessuno
abbia silenzio infine
e che la morte
sia libera di rendere
a quell’Uno.

QUANDO FINIRANNO LE PAROLE

Smetterò di scrivere, lo so.
Verrà quel momento e la mia mano
si fermerà sui tasti, oppure mentre
appoggiata alla ringhiera
tolgo le cocciniglie dal roseto .
E forse resterò sorpresa
piegata sulle gambe a scivolare
tra il mirto e la fontana.

Prima però le voglio tutte
le parole che affollano i miei giorni
se pure le dovessi pronunciare
al melograno o al noce

e andare a capo

LACRIMA

È solo mare
che si è sciolto
dentro

SULTANO

Colori d’occhi e di cuscini
mai le stesse labbra
mai gli stessi passi
danze di mille vesti.
Dove li porterai, già sovrapposti
calchi di seni e fianchi?
Dove conoscerai quella misura
che ti farà significare un volto?

Avrai nasse ricolme di sussurri
donne tinte di fiori alle finestre
nemiche-amiche fra di loro, in gara
a porgersi nel vuoto di parole
padrone di una notte.

Lei nella casa verde le colline
a galoppare sogni in sella al vento
custodirà segreti mai risolti
la chiave sotto l’anfora
in giardino.

DI FINESTRE, TANTE

Inaspettato giunse il crocevia
nel pullulare d’api, nel ronzio
perdevo il senso delle sue parole.

La bocca di vermiglio
papaveri schiacciati fra le labbra
pronunciavo la sera, e meraviglia
pareva la sua voce nella stanza

davanti alla finestra l’aspettavo
a tende aperte gli porgevo il niente:
ora lo so, non c’ero nel mio petto.

Non esistevo ancora, non ero nata mai.

Poi scorsi alle finestre della notte
affacciarsi di pianto e di lanterne
avvoltolarsi di parole smesse
e non un grido
non una spallata
alla porta dell’ombra
s’apriva il vuoto dietro la facciata.

rimedio
nel contrapporre l’ala alla caduta
sia di sostegno l’aria
e il tralasciare

OCEANO

Acqua nel defluire
mare sia
che nell’immenso suo
già si raccoglie

GIALLO

Profumo acceso
mani intrecciate nello stesso punto
sdraiati sul pendio del maggiociondolo
e lentamente vivere.

BANDE LATERALI

Metri o chilometri le strisce
di Gaza a metà del mese infinito
ramadan di coscienze in catalessi
confezionarsi apocalissi spicce.
Dall’altra riva in sephirot
movimenti di mitra
dirompono tra corpi di bambini
nati da questi parti
in queste parti
a rovescio del mondo.

Occhi bistrati in tonache-sudari
prigioniere le donne
madri di sassi e sangue

Braccia di candelabri all’inutile muro
di promessi suoli, di crune d’ago
in archi a sesto acuto.

E qui
nei blablabla documentati
a chi soffre d’insonnia, il convertire
brandelli d’uomo in frasi
infiocchettate.

DI RIVE E BINARI

I guardiani dell’ombra
chinarono salici su sponde
parallele di fiume

si levò un respiro

Ancora sola
foglia priva di ramo
intorno è vento

alle rotaie
non fu concessa mai
la convergenza.

PORTA

Riconobbi la soglia
una fotografia fatta di vento
lo riportava a me dall’infinito
il camino era spento e la finestra
si spalancava sull’eternità
le distanze incolmabili generavano spazio
su gradini sbrecciati ero seduta
di crepa in crepa
a rattoppare il tempo.

ROCCIA A SEMBRARE

Scalpelli e sgorbie li rivolgo a scorza
d’ossidiana, nucleo di lava
tra le scapole

mi cerco il punto equidistante dalle
e mentre sbozzo
il mio esatto sembiante si rivela
atomi di carbonio

ELFO IN INCOGNITA

In scarpe da ginnastica
piedi misura piccola, altrimenti
una spanna di veste verdemuschio
in abbondante scivolata spalle
trine da scavallare rosa bocci

gioco di luci e lucciole nell’erba
musicare in sordina
non si comprano con le cianfrusaglie
ali di primamore, né le annate
chateau d’yquem e desideri doc

di mughetti le brocche
per l’unicorno in sosta di boscheggio
l’elfo prepara il vento in un cincin.

HUACA

Ondate sul display, sono disposta
a pixel. Dall’era quaternaria
distante come i piedi dai capelli
approdo a sassi di memoria inscritta
selce mai polvere
né arresa
sorpresa forse in segmenti
incisa
a mano libera in sanguigna e calce
campitura perfetta dell’affresco
dove riporto storie. Mi trovate
se non vi basta un coro, quando
scandisco palpiti in assolo
al dio dei rebus
io l’Arlecchino di losanghe
fossili.

AMIGDALA

Regolare il livello goccia cade-non cade
redigere atti sostantivi
meno aggettivi
dati oggettivi
plink
a capoverso l’A maiuscola
convertire minuscola
sgonfiare senso
divertissement, ora piega
non alla bocca
né ruga a mezza cecità congiunta.
S’apre nel retrofronte
occhio di luce.

LIBERA-MENTE

E come potrei avercela con te
fratello
se dello stesso vento siam respiro?
Accolgo le mie mani
una misura d’ombra da riempire
con i gesti di sempre
lavo la tazza, non mi chiedo se
mi sia bastato, anzi non ho più sete
e bevo ancora alla salute tua.
Non aspetto sul ciglio del torrente
né di fianco, né a monte
i panni stesi sono ormai preghiere.

Un tanka scritto su pendici
verdeazzurro risale
slega il braccio
rende leggero il passo
mi sporgo nel saluto: sia la Vita.

RESTI

Restavano sul fondo
di un cassetto tarlato, come briciole
dure di ferraglie
parole oltre lo stremo
distanti dall’amore più dell’ultima stella
rapinavano i sensi
ma sfuggivano l’orlo delle cime.

Frequentava il silenzio tra le favole morte,
un nome fatto lapide
nel campo dei sospiri, e se di lama
trancia la rosa, non importa quanto
ne resti di profumo tra le dita.

OLTRE

Luci mimose accese a grappoli
sorvolo ad ali stese spazi interni
tra portici e colonne scorgo azzurro
sfiocchettato di sole.

Dall’acqua emersi,
fu battesimo nudo e sfolgorio
poi mi disgiunsi
andai nell’oltre intatto delle cime.

Ego me absolvo, rido
e volo ancora.

A PARTIRE DA UN FONOGRAFO

Il graffio della puntina erosa
sulla facciata A nel pvc, non ancora fissura
e ratatatata l’inceppamento
al monte di pietà lo porto in pegno.

Dall’emisfero destro, partitura
braccio sinistro cuore
solfeggiare.
Quanto di sole posso contenere
nel mio spontaneo moto
perpetuazione immagine di flash
contromorire in loco?

Vita m’assale a stento
Intanto vedo
assottigliarsi il vincolo e il re¬_fuso
svitando la corona diventare
in¬_fuso passiflora e biancospino
regina addormentata tra gli scacchi.
Al risveglio sia dono
giusto cielo.

PLIE’

Quando le porte di un sogno
aprono brecce nel presente e il tempo
ripiega sui foulards dipinti a rose
riversa sul damasco dei cuscini
indiscreta la notte a tatto e seta.
Calzo la vita con babbucce a punta

un sospetto di suono s’apre a tratti
in un plié raccolto, la mia danza
senza pareti ora che avanza il mare.

matematicaMENTE inCERTO

S’apre di luce
un varco tra cornici prive di tela
quadridimensionale
Escher disegna chi disegna chi
altro si obliqua lungo diagonali
mostra in vetrina che si mostra che

Bach in sordina
canone cancrizzante e canto inverso
nelle spire di note il clavicembalo
ben temperato s’ode

mentre dimostra Gödel assiomatica
la coerenza dell’incoerenza
analisi inconclusa
e la collana brilla sempre più

capitolare occorre alla mia mente
(avrò poi questa mente che soccorre?)
e decidere se
quello che veramente è conveniente
sia tralasciare cose
credute consistenti e, dalla fonda,
mollare ormeggi e guadagnare il largo.

MNEMONICA

Se nella “persistenza di memoria”
Dalì segnava molle il fuori tempo
se nella precessione equinoziale
“la gemella del Cane all’orizzonte
celata nel profondo dello spazio
e Sirio solamente brilla ancora…”
Chi, scriveva di stelle nel passato
e poi chiedeva: ma CHI siamo, noi?

Mi sembra tutto il mondo una folata
di misterioso andare a incenerire
fra le parole dette e quelle morte.
A prevederlo
avrei raccolto prove e controprove
per i giorni di noia, tra lune e soli
squarci sanguigni
un silenzio tagliente a sparecchiare.

Andante sincopato il testimone
sacrario di follia sulle montagne
stupa di fuoco, croce il mio pensiero.

E ADESSO ANDATE!

Libero palloni gonfi d’elio
li lascio andare, li accompagni Dio
che raccolga le tenebre dei resti
di svolazzi di pece

e sia clemente, ne dilavi macchie
e li riporti immacolati ancora
catarsi il fuoco, a misurare gesti.

Superbi come i sospirati astri
aggrappati a quell’attimo dei fili
sarà stavolta il vento a denudare
le scritte di réclame, e le bandiere.

Un Dio di pace
che non si volta sghembo mentre cado
che non torce sorrisi, e a braccia aperte
attende il mio respiro, in differita.

matrici

Culle di concavo amare
moltiplicare pani e dare luce al fiato
fabbricanti di calchi a cera persa
colare sangue fino alle radici
farsi vita da vita
Nasceranno d’autunno con il soffio
dell’incipiente inverno nei brusii
intonare il magnificat di foglie
alberi umani dalle braccia aperte
che sbattono nel vento
e mai di primavera
accorgersi per tempo.
Donne a finestre chiuse affacciate
per non precipitare
ora.

ADESSO…POI

Poi smetterete di parlare dei bambini di Gaza
ché ne muore un paese ogni giorno, di bambini.
Sotto coperte oscure.
voi sapete che a caccia si diverte
il vicino di casa, vedetelo partire
per esotici lidi, dove si paga a pezzi
l’infanzia incustodita
dove si compra a quarti anche il sorriso
c’è chi lo spegne sotto il tacco.

I bambini son merce, questa è la verità
quando nascono in piedi, già pronti per la lotta
quando gli si fratturano le gambe
e futuri novelli homini ridens
assicurano vie di carità
l’oste si impingua, l’albergatore tace.

E se adesso si smette di parlare
sarà quello ch’è sempre stato, al mondo
nessuno mai distruggerà le armi
nessun pope, nessun imam, nessun papa
chiuderà mai i battenti delle chiese
né si rivolge a Dio: smetto gli incensi
smetto le litanie, smetto i preziosi addobbi
e chiedo pace, e non avrò pietà per chi la toglie.
E smetterò di scrivere trattati
sull’Amore e la genesi degli angeli
o di inferni lontani e paradisi da comprare a rate.
Né di vergini offerte come premio.
Vestirò i cenci adatti, quelli stessi
che vestono gli offesi e i derelitti
scenderò tra di loro e griderò che Dio
non è arrivato, il figlio è morto invano
qui c’è solo Caino in veste occulta.

VERSO IL TACERE

Saranno secoli? Attimi che mi giro
a tascapane, a giustacuore, a scudo
e di necessità virtù mi allaccio scarpe

camminare dovrò
per la carrozza han già preso la zucca
a me non resta che la mezzanotte
la mia fata madrina s’è distratta.

Mi cucio sulla lingua un che di fiato
zenzero e cinnamomo retrogusto
enzima di saliva mordiefuggi
e mi farò bastare il pane, il gioco.

Tanto mi sveglierò, verrà il silenzio
quello che non sopporta ancora voci
né le cose sospese
quello che non s’inganna con le impronte
di parole calcate nella sabbia.

E avrò la colpa d’essere poeta
per abuso di suono.

IMPALCATURE

Non so se è tutto un gioco
se non avrà importanza la morale
delle piccole cose
né se darà fiato a trombe
e clangore a trafiggere
impalcature insonni

Quello che adesso è persuasione
di sangue in vene
coraggio o naturale smarrimento
se non saprò riunificare
il caldo e il freddo
chi sarò mai? Un pensiero
una vibrissa al minimo fermento?..

con movenze di gatto ammaestrato
ora vorrei dimenticare il mondo
essere un punto adatto al gusto e al tatto
tatuaggio di labbra
un brivido guizzante sotto pelle
e spogliata di me
lambire il suolo.

Invece smisurata
la mia sete di nuvole mi porta
sempre più vuota e sempre più distante
ai confini di me
che sto perdendo.

Taciturno

Il vento mi respira
e il desiderio
è un intenso tacere…

tempi di esposizione

Fu soltanto un istante
la sua solitudine dai tempi sbagliati
l’evasione sbiadita, i giochi d’ombra.
E vedevo la ruga approfondirgli la fronte
inerme, senza più corazze.
Un ragazzo lontano gli tremava negli occhi.
Aggrappato alle mani si sporgeva dal petto

Foglia fissata ancora sul suo ramo
lo stelo assottigliato dall’autunno

Colsi il grido taciuto
la maschera ingrigita a separare
il passato e il presente.
E capivo. E capiva.

di_stanze

Siedi, con le mani strette alle parole
tastiera di stelle e refusi
Dov’eri? mi chiedi
in tutti questi anni che ho battuto strade
tra barboni e puttane
e il desiderio di un angelo spaesato mi prendeva
davanti al mare, scompigli, tragitti a bassa quota
di gabbiani-spazzini nel sartiame
odore del catrame, e la risacca a dondolare barche.

Siedo, e scorro veloce con le dita
detriti di pensieri scivolati sui fianchi
ha fermagli d’acciaio lo sbadiglio
che fotocopia pause.
Accompagna il mio ritmo in alghe e diatomee
bollicine di luce l’abat-jour
disegna l’onda prossima al lenzuolo.

L’antro dell’elfo ha stalattiti argento
scialli di verdeazzurro alle pareti
e musica riversa sui cuscini
vieni, siediti accanto al mio respiro.

IL MAESTRO

Ho incontrato il Maestro della riva sinistra
gli ho chiesto perché mai
sul sentiero dei falchi finissero
le allodole
taceva mentre con livrea d’inverno
gli ermellini sgusciavano dal bianco
e cavalli a pariglie
saltavano siepi.
Ho chiesto, intanto che il mio piede
si attardava sul ciglio
se ci fosse una zolla incustodita
abitabile
o una crepa da cui nascere ancora.
Taceva e soppesava la mia veste
ora pochi danari
le mie calze in nylon.
Oh, Maestro! Tu vuoi che mi arrenda
a starmi dentro?
vuoi che il mio luccicare resti ignoto?
Dimmi,
è di tutti quest’aria ch’è mia soltanto in petto
quando mi assale Dio nella sua forma?
E tu, chi sei?
Rispose:
sono il Maestro della Delusione
se il passato ti bracca
se il futuro ti alletta
sei nella zona che non tocchi mai tra
la sinistra e la destra
e
e
qui sei tutto
adesso

PARI_MENTE

Oggi,
al mio bisogno d’aria
che ancora mi pareva mare
e possibile nido nel sartiame,
come risposta il vuoto.

E non reclamo segni d’altra fatta
ho disgiunto gli effetti dalle cause
così
semplicemente
sgombro il suolo.

Volerò così alto
che più non torneranno i suoni
e nemmeno i miei gesti
avranno ombra

scenderò se una voce avrà canzoni
scritte solo per me
non mi accontenterò più delle briciole
e al senso eterno del mio amare
solo di pari fuoco accoglierò
l’ardore.
Lo merito l’immenso
anche il divino.

DI ANELLI, DI STELLE, DI SABBIA.

Aveva impresso il nome sulla rena
un anello di sabbia alla sua mano
era lì che scriveva di Sirio
e di stelle gemelle, e le diceva
di averla attesa secoli,
con le parole dei poeti: insieme
oltre i respiri
tu non sarai oltre, io non sarò prima…
Sposa di mille secoli e poi mille
scrivo di te un minuto, che tu lo creda eterno.

intanto
sparsi di luna
i suoi capelli argento
tessevano la bara ai suoi ricordi.

A ME UNA TANA

A un che d’immaginario, caldo, mi rivolgo
e respiro di fretta, anche il tacere
ha un senso. Se mi parla di viali
consoni al mio andare, è di sentieri impervi
che ho bisogno a misura di passo.
Sospendere sussurri ai lampadari
tendere una bandiera d’ali, al limite del fiato
e poi forare ad aghi tristi il pallone
mio gioco di bambina irrequieta, mia bella
addormentata
a coccolare tracce di vesti e trecce.

Scoccami adesso, vita,
esigi il tuo tributo in pulsazioni fioche
riprenditi il bagaglio, non lo voglio.
E non suadermi, non tornare indietro.

Sono cerva di bosco, dalla tana
aperta colgo eclissi di luna e di parole
un fascio che smeriglia sassi.
Al mio occhio dipinto, scansione temporale
madre dei miei perché, ferisce al centro
e di rimando esige una risposta
che mai verrà, lo so. Dissimulate lame
nello strame d’inverno, a sangue freddo.
Scoccami te ne prego
ho bisogno di andare.

Informazioni su cristina bove

sono grata alla vita d'avermi lasciato il sorriso
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2 risposte a

  1. Pingback: cosmogonica di Cristina Bove | miglieruolo

  2. lallaerre ha detto:

    Cristina! alcune le ricordo, altre forse non le conoscevo…. Non sapevo di questo post così generoso di bellezza!

    Piace a 1 persona

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