Il suicidio è un evento che si tende a nascondere nell’ambito in cui si è verificato, qualunque sia l’esito, e viene definito come tale solo se “riuscito”, ovvero se il suicida muore. Se questi, invece, sopravvive, si parla di tentato suicidio.
Ma le cose non stanno esattamente così: posso dirlo con la massima certezza, avendone sperimentato entrambe le modalità.
Il “tentativo di suicidio” è una forma di ricatto sentimentale, una richiesta di attenzione che fa ricorso a metodi autolesivi, non finalizzati alla morte, ma tendenti a impietosire e colpevolizzare coloro che sono ritenuti responsabili della propria angoscia esistenziale.
Si spera di sopravvivere ed ottenere, finalmente, l’amore e la considerazione degli altri.
Talvolta sono preavvisi di un’escalation che può portare al vero suicidio.
Il suicidio vero e proprio è tutt’altra cosa: non c’è alcun desiderio di rivalsa, non si pensa alla possibilità di sopravvivere, anzi, per evitare questa evenienza, si mettono in atto metodi drastici, a lungo premeditati, o istintivamente ritenuti tali.
Quando aprì le persiane del balcone, non desiderava più alcuna attenzione, era soltanto decisa a porre fine a tutta quella sofferenza.
Non aveva previsto alcuna possibilità di “oltre” e di “ancora”. La delusione totale per quella vita in cui aveva creduto di amare ed essere amata si era rivelata un’arida prigione, una disgraziata successione di rifiuti e abbandoni.
Nemmeno la ricerca di un conforto alla violenza subita avrebbe potuto attutire la disperazione che aveva invaso ogni fibra del suo corpo e della sua anima.
Affacciarsi sull’abisso, spiccare il salto dal quarto piano di una palazzina di periferia, per un volo senza ritorno e… piombare sull’asfalto.
Tre giorni di coma. Svegliarsi. E ritrovarsi ancora prigioniera.
Nella viscosa difensiva del tacere (alibi per chi non riuscì ad assumersi la responsabilità di un fallimento genitoriale), doversi adattare a quell’assurdo silenzio.
E il tempo, che permette aberranti rimozioni, devastante indifferenza, diventa il becchino ufficiale di una morte avvenuta e mai ratificata.
Ed è ancora il tempo a permettere il ritorno alla “normalità” agli ALTRI, quegli altri che non riuscirono a confessare a sé stessi la propria inadeguatezza.
Che non ebbero la necessaria compassione per gli immancabili errori di quella fragile ragazza, benché testimoni del suo sforzo titanico per sopravvivere
Tentato suicidio: un titolo di giornale per la tragedia di un essere umano. Il gesto estremo viene così deprivato dell’inequivocabile, tragica, reale volontà di morire.
Il passare del tempo ricopre del suo oblio polveroso i percorsi della paura, spegne con le sue ombre incalzanti i guizzi degli ultimi falò, e riconsegna alla vita con un nuovo corredo di speranze, ridimensionate.
Soltanto oggi posso parlare di una morte accaduta più di cinquant’anni fa, perché trovo finalmente la forza di esternare il dolore di quella ragazza infelice, di scrivere delle motivazioni che la portarono alla drastica decisione, ragioni di cui nessuno ha mai voluto sapere. Semplicemente tacque.
Nemmeno al compagno di una vita, dopo anni di dure conquiste e faticosa crescita, è stato possibile raccontare: prima perché troppo giovani entrambi per capire quanto fosse necessario elaborare quel lutto, poi perché la nascita dei figli allontanava sempre più quell’adolescente, morta e resuscitata, dalla donna immersa negli impegni e nelle intense emozioni del suo essere madre.
A nessuno si può dare il carico di una tale esumazione. Ma sento che è arrivato il momento di farlo, da sola, perché è necessario dare degna sepoltura a quella ragazza caduta nel pieno svolgimento della sua battaglia per la libertà.
E dalla cui morte è nata la mia vita.
La mia meravigliosa vita. I miei meravigliosi figli.
è così anche per te. 🙂
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Questo mio scritto è nato dalla delusione e dalla rabbia: lo avevo iniziato qualche tempo fa, senza mai riuscire a proseguire. Qualcosa ultimamente ha fatto scattare in me la necessità di chiarire a coloro che mi esortano a dimenticare (come se non fosse mai successo nulla), a pensare soltanto al presente, a vivere.
Ben detto, vivo, e allora dico.
Vivo e racconto. Anche ai pavidi che si nascondono dietro il bon ton.
Quest’ultimo è intollerabile, è considerato come una grande virtù, e non si capisce che, in fondo, è solo una maschera per preservarsi, per l’incapacità di accogliere il proprio dolore e quello altrui.
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sì, vivo e racconto e dico l’allora, che riporta ora l’immenso: tu.
grazie crì. grazie.
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La nascita del poeta…(sento, voglio pensare sia così).
So di che parli Cri, e permettimi di stringere per un po’ fra le braccia quella diciottenne…
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grazie, Ross, mi fa bene il tuo abbraccio. ❤
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E’ difficile commentare una pagina così personale e toccante… lo faccio solo per esprimere la contentezza che il desiderio di annullamento antico di quella ragazza non sia andato in porto: miracolo, fatalità, angolazione sbagliata. Un’altra donna, da cui è nata quella nuova: forse non poteva essere altrimenti, forse doveva passare per forza da quel passo, che allora doveva sembrare ineluttabile; ma ci porta la testimonianza che l’ineluttabilità sarebbe stato un errore, che l’opzione definitiva, a 18 anni, non si dovrebbe mai scegliere… un abbraccio
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grazie, gioma, per queste riflessioni che rivelano la profondità del tuo sentire.
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